Qualche mese fa sul mio sito web sono apparse una nuova pagina e una nuova icona. È successo quando ho trovato il “coraggio” di aggiungere la journal therapy tra i miei servizi.
Ci ho riflettuto sopra per mesi prima di prendere la decisione, ma nulla di nuovo, in fondo anche prima di approdare alla mia metodologia libroterapica ci ho messo parecchio tempo di studio, di elaborazione e di riflessione. L’ho provata e riprovata per anni, ne ho scavate le basi teoriche, ho ricamato fili rossi tra i significati che sentivo importanti e solo dopo sono riuscita a raccontarla.
Con la journal therapy sta succedendo qualcosa di simile.
Devo fare una premessa: tenere un diario (per come lo intendiamo tradizionalmente) e fare un percorso di journal therapy non sono la stessa cosa. E questo è stato uno dei miei blocchi iniziali: dovevo esplorare bene le differenze e non è stato immediato perché come spesso accade nel nostro mondo i riferimenti erano tantissimi e spesso i due confini venivano mischiati, magari anche solo per vendere un diario in più o chissà per quale altro motivo.
Tenere un diario ha a che fare con il tenere traccia della vita: lo si può fare scrivendo, disegnando, usando tecniche miste. Ma l’obiettivo è la registrazione degli eventi, la tenuta dei ricordi. Scrivo quello che è successo oggi, magari anche in maniera profonda e con le mie riflessioni di questo momento, ma quando poso la penna ho finito e difficilmente rileggerò quelle pagine. Anzi, chiunque abbia tenuto un diario sa quanto può essere imbarazzante rileggerlo dopo del tempo, specialmente se sono passati anni. Abbiamo la sensazione che quello che abbiamo registrato appartenga ad un passato in cui eravamo più giovani, magari più “banali” o comunque differenti da oggi. E difficilmente ci esponiamo alla rilettura.
Un diario artistico si sfoglia più volentieri ma se ci abbiamo registrato qualcosa di personale può tornare l’imbarazzo o il giudice interiore che ci dice che in fondo anche esteticamente non è poi così bello come ci sembrava all’epoca della sua creazione.
Esistono esempi di journaling mirato al business, alla creatività, persino all’esercizio fisico…e si avvicinano molto alla journal therapy.
Un percorso di journal therapy è una occasione per avviare un dialogo interiore con noi stessi, ponendoci in un costante dialogo interno. Scriviamo per avere occasione di rileggere, per riflettere, per prendere consapevolezza di nostri meccanismi interiori, di nostri schemi mentali. Ripercorriamo i significati della nostra vita e scopriamo così tanto di noi che l’imbarazzo della rilettura del diario viene sostituito dallo stupore delle scoperte.
Certamente non è tutto rosa e fiori, ci vuole una buona dose di coraggio per affrontare un percorso che ci metta in dialogo con le nostre istanze profonde: non sappiamo cosa incontreremo, nessuno può saperlo esattamente. Di certo ci conosceremo meglio. E come puoi comprendere da queste parole, la journal therapy si avvicina molto ai meccanismi della psicoterapia. Per questo è sensato che a guidare il percorso della persona ci sia una persona preparata, che abbia delle conoscenze specifiche e che ci aiuti ad orientarci nella miriade di tecniche che si possono usare in questa metodologia.
Quando ho iniziato ad occuparmi di journaling lo facevo per me, mi sono resa conto che scrivere mi era di aiuto per avere insight utili alla riflessione personale e anche professionale (sono solita tenere un journal della pratica professionale, che non è un diario delle sessioni con i pazienti ma un diario di bordo degli accadimenti nella psiche del terapeuta). Ma se una metodologia mi sembra utile non riesco a limitare la mia curiosità, mi ritrovo a voler approfondire, a cercare riferimenti teorici, a studiare approcci diversi.
Così ho accumulato una bibliografia direi imponente, in due lingue, ma principalmente in inglese (non esiste molto di tradotto in italiano) e più leggevo mi rendevo conto di dover fare delle esperienze in prima persona. Volevo corsi in cui confrontarmi con i docenti, gruppi in cui poter vedere cosa succede nel processo della journal therapy. Tra i principali paradigmi che ho studiato mi hanno dato molto quello di James W. Pennebaker, quello di Katy Adams, e quello, a me vicino per quella ghianda junghiana che porta in seno, di Ira Progoff.
Ho fatto formazione e molta ancora è nella mia lista dei desideri (ieri ho concluso un workshop con una formatrice di New York su Progoff Intensive Journal Program) e l’interesse per la storia condivisa sui social mi ha dato conferma che era il momento di raccontare ciò che sto facendo).
Da qualche mese ho iniziato a seguire alcune persone in un percorso individuale di journal therapy con un approccio costruito su misura e che sto limando per renderlo coerente con la mia visione ontologica. Ho visto i primi risultati e adesso sto strutturando i primi percorsi di gruppo. Sembra strano ma si possono fare dei gruppi di journal therapy senza che questo generi imbarazzi o metta i partecipanti in posizione scomoda (ennesima similarità con la libroterapia, in effetti).
Tra qualche settimana ti racconterò uno dei primi percorsi, che sarà una sorta di assaggio, ed entro la fine dell’anno spero di pianificare un workshop specifico sulla journal therapy.
Intanto ti invito a cercare gli attrezzi del mestiere: un quaderno in cui sia comodo scrivere, magari a righe (non è obbligatorio ma aiuta), ed una penna con cui scrivere a mano sia veramente un piacere…
Ti lascio una citazione di Ira Progoff pronunciata nel 1989 durante uno dei suoi seminari:
“Il journal ci permette di assaporare la bellezza e di guardare diritto nel dolore”
Se hai domande scrivile nei commenti e sarò felice di rispondere a tutte le curiosità su questa metodologia e sui progetti che sto elaborando!
Mi ha fatto molto piacere leggere questo articolo. Sono circa 5 anni, tra momenti di continuità e non, che mi trovo a praticare la journal therapy, collezionando memorie emotive, poesie, immagini, pezzi di libri e fotografie. Tutto raccolto insieme mi permette di scavare in quella zona profonda dell’anima che spesso rimane celata o per volontà o per indifferenza. Il suo potere terapeutico, almeno per la mia esperienza, è molto forte fino ad essere un bisogno fisico, una valvola di sfogo concreta e per una grafomane come me risulta essere anche una sorta di allenamento nel creare nuovi percorsi e nuove idee.